Tagliariso, mondine, agricoltura 4.0. Paolo Dellarole racconta Santhià - Fuoriporta

Tagliariso, mondine, agricoltura 4.0 Paolo Dellarole racconta Santhià

Paolo Dellarole, coltiva il suo riso fin da quando era bambino. La terra fa parte dei suoi affetti più cari. Ma non c’è solo quella. Un’intervista lunga e interessante, dove, tratteggiando la vita di un uomo si racconta la storia di una terra e della risiculutura.

Da cosa nasce tutto?
La coltivazione della terra fa parte della storia della mia famiglia, sia dalla parte materna che paterna. Le nostre origini sono contadine. I miei nonni erano piccoli proprietari terrieri, sono divenuti poi affittuari e conduttori di altri terreni per la coltivazione.
Come tutte le famiglie di quei tempi, nel primo dopoguerra, erano molto numerose perché il lavoro nei campi richiedeva manodopera e a volte la superficie coltivata era troppo poca per consentire a tutti di avere un reddito e fu così che da Buronzo, mio nonno Medardo, classe 1903 e nonna Maria classe 1907 con i figli Carlo e la moglie Liliana (i miei genitori), i miei zii e le cugine, si trasferirono tutti a Santhià per condurre in affitto le cascine Nuova ed Ivo in località Pragilardo. Diciamo che da qui nasce tutto.
Solo Candido, lo zio primogenito, fu l’unico ad andare all’università. A quei tempi era difficile consentire a tutti i figli un’istruzione. Divenne professore di lettere, latino e greco.

Quanti anni avevi quando hai iniziato a lavorare?
Fin da piccolo ho vissuto la realtà di una vita legata alla natura e agli animali. A quei tempi molte aziende del territorio di Santhià allevavano anche il bestiame per la produzione di latte o carne. Anche noi avevamo infatti una stalla da latte che ci sosteneva insieme alla coltivazione dei campi di riso.
Il lavoro non mancava e quindi dall’età di 14 anni, quando tornavo da scuola, davo già una mano in azienda.
Volevo imparare il mestiere dell’agricoltore, anche se, come diceva mio nonno, bisogna “saper fare di conto”. Iniziai quindi ragioneria.
Finiti gli studi superiori, nel 1986 partii per la leva militare che allora era obbligatoria, lo racconto solo per ricordare che in quella circostanza ai militari, figli di agricoltori, veniva data la “licenza agricola” che consentiva di tornare a casa per 10 giorni in occasione delle semine e altrettanti giorni per il periodo dei raccolti, per aiutare la famiglia.
Finito il servizio militare, capii che volevo essere un agricoltore e in particolare un risicoltore.

Cosa significa essere un risicoltore?
In quegli anni mi avvicinai al mondo dell’associazionismo agricolo in particolare della Coltivatori Diretti, iscrivendomi al loro movimento giovanile ed entrando a far parte dell’associazione risicoltori piemontesi che si occupa di commercializzazione e stoccaggio del risone.
Grazie a queste due organizzazioni ho potuto crescere sia per la formazione professionale seguendo corsi organizzati su argomenti che spaziavano dall’informatica alla evoluzione della tecnica di coltivazione ma anche come esperienze di vita e culturali. Importanti sono stati i viaggi studio, dedicati al riso ovviamente, in Brasile, Uruguay e Argentina. Camargue in Francia. La Spagna nella zona di Siviglia. Ognuna di esse aveva tecniche diverse per la coltivazione e stoccaggio del risone.

In cosa si caratterizza la vostra realtà imprenditoriale?
Nel corso del tempo ci siamo specializzati nella produzione di riso da seme per alcune ditte sementiere e nella coltivazione di riso per il mercato nazionale ed europeo. Oggi il 50% della nostra superficie aziendale è destinata alla coltivazione di riso per il sushi, che negli ultimi anni è diventato un mercato in crescita.

Il riso non è stata la sua unica passione…
Nel corso degli  anni, proseguendo ho sempre dato ampio spazio la mia attività sindacale. Ho partecipato a quasi tutte le manifestazioni di protesta organizzate da Coldiretti. Sono stato in varie occasioni e nel tempo a Bruxelles, Strasburgo, Roma, Torino, Bologna , Brennero, Frejus, ecc. ecc ritenendo importante essere parte attiva verso le istituzioni nazionali ed europee per la rivendicazione di diritti o regole a difesa, o utili per l’agricoltura in generale. Per il vero cibo Made in Italy o per migliorare la competitività e il reddito delle aziende agricole e degli agricoltori.
Oggi dal 2011 ricopro la carica di presidente provinciale di Coldiretti Vercelli Biella, cosa non facile da conciliare con il lavoro in azienda, ma che svolgo volentieri per i principi in cui credo.
Ma la mia passione più grande c’è stata nel 1998, quando è nata mia figlia Gaia che oggi frequenta la facoltà di ingegneria biomedica a Torino, ma con mia grande soddisfazione vuole essere costantemente aggiornata su come vanno le cose in azienda, quindi il richiamo delle radici agricole è ben vivo in lei.

Da ieri a oggi cosa è cambiato nella coltivazione?
Da quando mio nonno coltivava i terreni è cambiato praticamente tutto se partiamo dal primo dopoguerra, l’Italia era distrutta e nelle campagne vi era molta povertà anche per la difficoltà e il rischio economico che comportava coltivare i terreni con l’uso di manodopera principalmente familiare e del bestiame. I terreni si aravano con i cavalli o con i buoi. L’Unità di misura, ancora oggi in uso fra agricoltori nel vercellese, è la “giornata piemontese” che corrisponde a “metri quadri 3810”, che rappresenta la superficie che un uomo, con una coppia di buoi  riusciva ad arare in una giornata di lavoro.
Quindi ancora oggi si sente dire “quante giornate coltivi tu”?
Oggi inoltre è possibile assicurare le coltivazioni dalle calamità atmosferiche, che seppur costoso, consente di mettersi al riparo dal rischio economico di perdere il raccolto.
Sviluppandosi la risicoltura è cresciuta molto anche l’industria ad essa  collegata, mentre ai tempi di mio nonno il consumo del riso in Italia era legato ai territori di produzione o serviva come base delle razioni militari, per fare un esempio. Oggi la risicoltura italiana fornisce, grazie all’industria risiera, che si è radicata sul mercato europeo più del 50% del fabbisogno di tutta Europa e con i suoi 218.000 ettari va a piazzarsi al primo posto tra i paesi produttori di riso in Europa e il Piemonte. E’ il territorio con la maggior superficie coltivata in Europa più di 110.000 ettari.

Quindi dai tempi di mio nonno tutto veniva svolto manualmente dalla lavorazione dei terreni alla semina che avveniva, cosa che molti non conoscono, con i campi già allagati. Si procedeva a piedi nudi nel fango con una cesta colma di seme di riso al braccio. A spaglio nell’acqua, si gettavano i semi, oppure si facevano dei vivai di piantine di riso seminate fitte fitte per poi prelevarle ad una certa epoca di sviluppo e legate in  piccoli mazzi, per andarle a trapiantare, una ad una, nei campi allagati. Quest’ultimo lavoro, come la monda delle infestanti, veniva svolto dalle “mondine” che tutti conosciamo per il noto film “Riso amaro” girato proprio nei territori piemontesi.
Quindi tantissima manodopera.
Le cascine in quegli anni erano delle vere e proprie comunità. Le più grandi, come Vettigne con il suo castello che si trova nel territorio di Santhiè erano addirittura considerate frazioni del comune per quanta gente ci abitava. Erano autosufficienti. Ci si produceva il pane, si allevavano animali da cortile per sfamare le famiglie e i lavoratori stagionali e come a Vettigne vi erano la chiesa, il cimitero e i dormitori per le mondine.
Anche il taglio e la raccolta del riso venivano fatti a mano dai così detti “tagliariso”.

Dal taglio del riso alla vendita?
Si formavano dei covoni, che trasportati con dei carretti nelle cascine,  venivano battuti a mano o con le prime trebbiatrici fisse, per separare la paglia dal risone, che veniva poi messo a essiccare sulle aie, al caldo del sole e dell’aria. Cosa che però comportava un costante rimescolamento del prodotto sempre eseguito a mano.
Successivamente veniva insaccato e trasportato nei magazzini caricandosi i sacchi sulle spalle.
Alla vendita del raccolto si faceva l’operazione contraria dai magazzini si trasportavano i sacchi, sempre a spalle, sui carretti trainati dai cavalli per portarli alle riserie.
Tutta la fatica e le condizioni di lavoro spiegano come, con l’avvento del crescente sviluppo industriale dell’Italia, anche dai nostri territori vi sia stato un esodo dalle campagne.
Chi è rimasto, come mio padre e la mia famiglia hanno però assistito ad un radicale e costante cambiamento del modo di lavorare nei campi. L’arrivo della meccanizzazione sempre più evoluta e della chimica hanno fatto si che le condizioni di lavoro migliorassero sempre più, riducendo parte della fatica e dei rischi, consentendo alle aziende di crescere e prosperare.

Agricoltura 4.0…
Io che proseguo in questa attività sto assistendo al passaggio, in quella che viene chiamata agricoltura 4.0, che in risicoltura viene adottata in maniera sempre crescente.
Consiste nell’applicare a macchine e attrezzature utilizzate, tecnologie satellitari e computerizzate che consentono una gestione sempre più precisa ed economica delle stesse.
Oggi grazie a queste tecnologie si possono mappare i terreni. In pratica con delle immagini satellitari e dei software appositi si analizza il vigore fogliare delle colture  in campo e da lì si individuano aree più fertili e meno fertili.
Si possono analizzare le colture e intervenire con ciò che necessitano sia a livello di fertilizzazione che diserbo in maniera molto mirata, metro quadro per metro quadro, riducendo l’uso sia di fertilizzanti che di fitofarmaci. Con un occhio al portafoglio e uno al rispetto dell’ambiente.
Per fare un esempio in molti casi il trattore o la mietitrebbia montano una guida automatica gestita da più satelliti e da un computer, in pratica guida lui. Quindi l’operatore deve solo controllare la guida al momento di svoltare nel campo e per il resto del tempo controllare i parametri e le impostazioni dell’attrezzo di semina, diserbo, concimazione o raccolta. Anch’essi comunque registrati da un pc .
Ciò permette di avere dati precisi sullo stato di fertilità dei terreni e delle colture e sui quantitativi raccolti in campo.
Il raccolto viene scaricato dalle mietitrebbia su rimorchi trainati dai trattori e trasportato in essiccatoi, anch’essi regolati da computer che portano il risone in maniera uniforme ad una umidità del 13% idonei a conservarlo per i mesi successivi ed inviato, quindi, con trasportatori appositi in silos o magazzini. Da qui, poi, una volta venduto il tutto, viene caricato sempre con trasportatori meccanici sui camion, con un uso ridotto di manodopera e quindi di fatica.

Quali sono i lavori manuali, se ancora ve ne sono?
Si può dire che gli unici lavori, a oggi manuali, senza uso di macchinari appositi, in risicoltura sono quelli legati al controllo e governo delle acque nelle camere di risaia che vanno svuotate e riempite, a seconda delle operazioni che si vogliono eseguire in campo. Eseguendo una regolazione manuale delle bocchette di entrata ed uscita delle acque. Gli argini delle camere di risaia inoltre vanno controllati e vigilati per evitare perdite d’acqua o falle causate da animali selvatici.
Quello della monda del riso, destinato alla riproduzione delle sementi per l’anno seguente, che richiede un occhio allenato e una cura particolare per evitare di eliminare la pianta sbagliata, è un altro dei lavori manuali in risaia.
Ancora oggi, avvalendosi di manodopera per lo più cinese, fa parte della loro cultura e hanno occhi allenati a questo tipo di operazione, le mondine di una volta sono ormai in pensione, il riso da seme viene selezionato attraverso uno o più passaggi in campo, procedendo a piedi per file parallele. Con un falcetto vengono tagliate le piante che non hanno le caratteristiche varietali di riferimento, per  altezza o dimensioni dei chicchi o perché trattasi di riso crodo, ovvero infestante che assomiglia al riso.

Ci racconti del rapporto con il sushi
Oggi come detto in precedenza uno dei settori in cui ci siamo introdotti e quello della produzione di riso per il sushi attraverso il contatto con altri risicoltori ed una società sementiera Sis (società italiana sementi) siamo venuti a conoscenza che una multinazionale giapponese la Jfc, stava cercando aziende, disposte a coltivare una varietà chiamata yume (in giapponese significa sogno), perché sembrava quasi un sogno coltivare in Italia un riso proveniente dal Giappone, così differente per clima e latitudine rispetto all’Italia. Dopo un lavoro di selezione e adattamento al nostro clima, eseguito dalla ditta sementiera, in collaborazione con un luminare della risicoltura giapponese il dott.Honda, si è riusciti a partire. Sotto l’occhio vigile di alcuni tecnici giapponesi, che periodicamente vengono in azienda a controllare lo sviluppo delle piantine, abbiamo iniziato questa avventura che ci sta dando buoni risultati produttivi. Così i partner giapponesi commercializzano il riso nei loro ristoranti di riferimento in Italia e in Europa, dove si può gustare un sushi di alta qualità.
Nei vari incontri che Jfc promuove con i loro produttori ho potuto stringere amicizie ed approfondire la conoscenza della cultura giapponese che ruota intorno al riso. Per esempio in Italia il consumo medio procapite di riso è di 5/6 chili anno in Giappone è di 5 chili al mese!  Il riso in Giappone e così importante da avere un suo ruolo simbolico in molti riti religiosi, nello scintoismo il riso e il sakè sono comunemente usati come offerte cerimoniali agli dei e agli antenati.

Un ricordo…
Tra gli aneddoti raccontati da mio padre o mio nonno, c’è questo che ricordo molto bene. All’epoca della semina, alla mattina, per poter seminare, bisognava aspettare che il sottile strato di ghiaccio che si era formato durante la notte sulle risaie allagate si sciogliesse, per poter far si che il seme potesse poi affondare sotto il pelo dell’acqua.
Sempre nella memoria di mio padre, rimane poi vivo il ricordo dell’atmosfera che c’era nelle cascine ai suoi tempi, quando erano popolate di famiglie di lavoratori e si ospitavano le mondine. Nonostante il lavoro fosse molto faticoso e stancante, non si perdeva però, lo spirito di festeggiare in allegria tutti insieme, suonando e ballando alla sera dopo il lavoro sulle aie dei cortili delle aziende.
Alla fine della mietitura del riso, ricorda, si usava fare la festa della ”curmura” o “curmaja” dove si invitavano lavoratori e parenti a pranzare tutti insieme intorno a un tavolo per festeggiare il buon esito dei raccolti, tradizione, che si è un po’ persa, ma che da vive anche nei miei ricordi di bambino per quanto fossero lunghe le tavolate di persone radunatesi per festeggiare.

Santhià, il riso e cos’altro?
Santhià non è solo riso, vi è tutta una parte del territorio dedicata a colture asciutte nella località Bosafarinera. A Mandria c’è da ammirare  l’architettura. Mandriotta e Moleto dove vi erano intere cascine che si dedicavano all’allevamento di bovini da carne e da latte, alla coltivazione di grano, orzo, mais, foraggi, soia e fagioli anch’esse popolate un tempo da numerose famiglie. Santhià è anche archeologia, qui sono state trovate alcune tombe romaniche del terzo secolo dopo Cristo ed i resti di un antica via romanica.

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